In assenza di una disciplina organica a livello legislativo, le parti sociali hanno introdotto da tempo strumenti di partecipazione dei lavoratori nella contrattazione collettiva, ma con modalità e intensità ancora molto variabili. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme consultive, che non prevedono reali poteri decisionali. Secondo l’elaborazione della Fondazione Ezio Tarantelli sulla banca dati della Cisl, il 59% degli accordi esaminati include la partecipazione solo a livello consultivo, il 40% prevede un coinvolgimento organizzativo, mentre la partecipazione economico-finanziaria e quella gestionale sono presenti rispettivamente nel 19% e nel 5% dei casi. Dati che confermano un panorama ancora frammentato e privo di una strategia unitaria.
Partecipazione dei lavoratori in Italia: il bilancio dei contratti collettivi
Un primo impulso verso un modello più ambizioso era arrivato nel 2018 con il Patto della Fabbrica, sottoscritto da Confindustria e dalle principali sigle sindacali. In quel documento si indicava la partecipazione come leva strategica per la competitività delle imprese e la valorizzazione del lavoro. Tuttavia, gli sviluppi concreti sono stati limitati. Un esempio emblematico è rappresentato dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, che nel 2021 ha introdotto una norma sperimentale per promuovere la sottoscrizione di protocolli volontari sulla partecipazione. L’iniziativa ha trovato un’adesione contenuta, pur registrando forme di partecipazione organizzativa nel 67% degli accordi aziendali censiti da Adapt nel settore.
Le esperienze aziendali: comitati, incontri e cassette delle idee
Sebbene il quadro sia disomogeneo, alcune imprese hanno adottato pratiche innovative che vanno oltre la consultazione. Le Acciaierie Venete e Toyota hanno istituito commissioni paritetiche per il miglioramento dei processi produttivi. Alstom Ferroviaria ed Electrolux organizzano incontri periodici per affrontare temi come l’orario di lavoro e i piani formativi. Aziende come Brawo, Technogym e Siat utilizzano sistemi di suggerimenti e cassette delle idee per raccogliere proposte operative dai dipendenti. Più rara ma significativa è la partecipazione attiva nella definizione delle politiche formative (InfoCert, Piaggio), nella gestione dei premi di risultato (Acciaierie Venete, Fontana Pietro) e nella revisione degli inquadramenti professionali (Carel, La Leonessa).
Il caso del chimico-farmaceutico e gli Osservatori aziendali
Nel settore chimico-farmaceutico, la partecipazione organizzativa è incentivata a livello contrattuale. Il contratto collettivo nazionale prevede l’istituzione obbligatoria degli Osservatori aziendali per le imprese con oltre 50 dipendenti. Questi organismi svolgono un ruolo di analisi e confronto su aspetti cruciali come la formazione, l’orario di lavoro e il lavoro agile. Si tratta di un’esperienza che, pur non sfociando in una co-decisione piena, offre un modello più strutturato di coinvolgimento.
Commissioni con poteri specifici: timidi segnali di co-gestione
Secondo i dati Adapt, il 21% degli accordi aziendali censiti prevede commissioni dotate di poteri specifici. Alcuni esempi riguardano il monitoraggio della sperimentazione dello smart working (Fater, Leonardo), la supervisione dell’esecuzione degli accordi di prossimità (BHC Manufacturing), o la gestione diretta di istituti contrattuali come permessi e inquadramenti (Johnson & Johnson). In qualche caso, come in CoCeramica ed Endura, le commissioni paritetiche partecipano alla gestione degli orari e alla flessibilità organizzativa, avvicinandosi a una vera partecipazione gestionale.
Temi al centro: orario di lavoro, formazione e welfare
I temi maggiormente regolati dagli accordi aziendali restano comunque quelli più legati all’organizzazione del lavoro. Il 39% degli accordi tratta l’orario di lavoro e il lavoro agile, il 34% si occupa di formazione, mentre il 21% affronta il tema del welfare aziendale. Restano invece marginali – seppur significativi – i tentativi di coinvolgimento più profondo, come i gruppi di miglioramento o i sistemi strutturati di condivisione delle idee sui processi produttivi. Alcune esperienze in tal senso si registrano in aziende come Fater e Unifarco, che hanno sperimentato percorsi più avanzati di partecipazione.
Un modello da rafforzare con una cornice normativa stabile
Il quadro che emerge è quello di una partecipazione diffusa ma ancora troppo debole, priva di poteri effettivi e spesso relegata a un ruolo consultivo. Le esperienze più avanzate restano isolate e spesso frutto di iniziative aziendali, senza un quadro normativo nazionale che ne garantisca la diffusione. Se si vuole davvero puntare su un modello di impresa partecipata, come leva per l’innovazione, il benessere e la produttività, è necessario superare la frammentarietà attuale e definire un sistema di regole chiare, che favorisca il coinvolgimento stabile e strutturato dei lavoratori.