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Pepe Mujica, l’ultimo che poteva permettersi di essere se stesso

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Pepe Mujica, l’ultimo che poteva permettersi di essere se stesso

José Alberto Mujica Cordano è morto. Ma in realtà non è mai nato per davvero nella categoria dei potenti, dei costruttori di carriere, degli architetti di consenso. Uno così nasce già fuori posto. Nato nel 1935 in Uruguay, figlio di un contadino e di una donna di origine basca, ex venditrice di fiori, finito a fare il presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay. Per caso, o forse per destino. Non era previsto che un ex guerrigliero tupamaro, passato per la galera più lunga che un uomo possa reggere (tredici anni, quasi tutti in isolamento), diventasse la coscienza semplice e inattaccabile di un paese intero. E invece.

Pepe Mujica, l’ultimo che poteva permettersi di essere se stesso

Il soprannome era Pepe. Ma bastava dire “Mujica” e già si capiva: si parlava di quell’uomo là. Che non usava cravatta. Che si toglieva di dosso ogni impalcatura. Che non cercava titoli, né consenso. Che parlava come un padre stanco ma ostinato, come un contadino che ha imparato la pazienza a furia di errori.

Vita minima, respiro lungo

Mujica non ha mai voluto il potere. Gli è piombato addosso come la pioggia in una sera qualunque. L’ha preso in mano con una naturalezza da artigiano. Viveva in una casa con il tetto basso, insieme a sua moglie Lucía Topolansky – anche lei ex militante, senatrice, vicepresidente – e ai suoi cani, coltivava fiori, guidava un Maggiolino scassato. Ma sapeva ascoltare. E soprattutto sapeva aspettare. Aspettare che gli altri smettessero di urlare, per dire la sua. Una frase, due al massimo. Ma quelle giuste.

Eppure, il suo governo non è stato solo simbolico. Da presidente (2010-2015), Mujica ha promosso una stagione di riforme che hanno fatto scuola: la legalizzazione della marijuana, la depenalizzazione dell’aborto, l’approvazione del matrimonio egualitario. Tutto in un paese piccolo, sobrio, abituato a non alzare la voce. Ma lui, proprio con quella voce bassa, ha portato l’Uruguay sulla mappa dei laboratori sociali del mondo. Ha gestito l’economia con rigore – crescita del PIL, calo della povertà, rafforzamento dello Stato sociale – ma ha rifiutato i toni da tribuna. Diceva: “Non sono povero, sono sobrio. Mi basta poco per vivere.”

Un’anima disarmata

Chi lo ha rinchiuso in cella – i militari, i nomi scoloriti della dittatura – pensava di spegnerlo. Gli hanno tolto la luce, la voce, perfino l’acqua per lavarsi. Lui ha usato il silenzio come concime. È uscito che era un altro. Ma non vendicativo. Non ideologico. Solo più radicale nel senso più puro del termine: legato alle radici. E quelle radici non erano solo politiche. Erano esistenziali.

Nel film La noche de 12 años lo vediamo recluso insieme a Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro, prigionieri-ostaggi della giunta militare. Non è spettacolo. È immersione. Perché Mujica non è un’idea: è una presenza. Chi l’ha incontrato lo sa. Non ti stringeva la mano, ti guardava dentro. Non faceva prediche, ma ti obbligava a pensare.

Fuori scena, senza commiato

Ora che non c’è più, ci resta il disagio di un’assenza che è anche uno specchio. Mujica era l’eccezione, e dunque la domanda: perché non può essere normale vivere così? Politica, per lui, era solo una forma alta del vivere. Niente cinismo, nessun sentimentalismo. Solo una linea retta, percorsa a piedi nudi.

È morto Mujica. Ma si fa fatica a scriverlo. Uno come lui non ha mai vissuto per esistere nei notiziari. Stava altrove. Dove l’erba cresce. Dove la parola “sobrietà” non è una posa, ma un modo per restare fedeli a sé stessi. Anche da presidente. Anche ora che se ne è andato.

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