Don Carlo ci salverà!

- di: Barbara Leone
 
Tredici minuti di applausi, qualche buuu (pochissimi, in verità) per il direttore d’orchestra Riccardo Chailly e un po’ di più per il regista Lluís Pasqual. Un Don caldo, oltre che Carlo, quello andato in scena ieri sera al Teatro alla Scala di Milano. Ad aprire le danze, il discorso del sovrintendente Dominique Meyer che ha annunciato ciò che è noto da tempo, ovverossia che l’Unesco dichiarato il canto lirico italiano patrimonio immateriale dell’umanità. In platea domina il colore rosso (oltre all’immancabile e classicissimo nero), non per trasgressione ma in omaggio alle vittime del femminicidio. E così ciò che inizialmente sembrava un gesto quasi oltraggioso, perché in teatro rosso e viola sono da sempre colori banditi, si è trasformato in una sorta di manifesto. Un grido silenzioso delle tante dame presenti per dire no anche qui, nel tempio del melodramma italiano, a quella che è oramai una vera e propria piaga cultura e sociale. Alla sua decima “prima” di Sant’Ambrogio, Chailly ha guidato un cast a dir poco stellare, con i protagonisti Anna Netrebko e Francesco Meli, rispettivamente nei panni di Elisabetta di Valois e Don Carlo.

Ed ancora  Luca Salsi (Rodrigo, Marchese di Posa), Michele Pertusi (Filippo II) ed Elina Garanca (Principessa d’Eboli). E l’ha fatto egregiamente, portando sul podio la versione italiana in quattro atti del 1884, e catapultando gli spettatori in un mondo che nel suo trionfo di barocco e barocchismi è, purtroppo, molto più vicino di quanto si pensi. Un mondo fatto di amore e guerra, spietatezza della politica e passioni individuali, culto della patria e  fanatismi religiosi. Ancora una volta, dunque, il buon Peppino Verdi non ci delude, nella sua deflagrante attualità che magicamente s’interseca coi velluti, i broccati, i ricami, le pregiatissime sete e coi riverberi tutti d’un tempo solo apparentemente antico. A dominar la scena un allestimento tradizionale, caratterizzato da un’enorme torre tonda d’alabastro che si apre e si chiude mostrando scorci di azioni ora statiche ed ora più dinamiche. Su tutto, la bellezza tenebrosa e abbacinante di un’opera febbrile. Una delle più travagliate, se non la più travagliata, di Verdi che per la terza volta (dopo I masnadieri e Luisa Miller) si cimenta con la drammaturgia Friedrich Schiller. Il risultato è un lavoro monumentale, dove l’esplorazione psicologica dei protagonisti raggiunge livelli altissimi mescolandosi col tema principe, che è poi quello de potere. Inteso in senso lato.

Ed è proprio sul potere, sulle sue distorsioni, sulle sue tenebrosità e sottili violenze che ci invita Verdi nel suo Don Carlo magistralmente, e coraggiosamente, portato ieri in scena alla Scala. A conferma, ove ce ne fosse bisogno, che il melodramma non è roba da vecchi o da naftalina, e che forse (sicuramente) andrebbe molto più valorizzato, Unesco a parte. Andrebbe studiato, analizzato in tutte le sue molteplici pieghe nelle scuole, molto più di come si fa adesso. Se lo si fa. Perché magari, sogno o utopia chissà, partendo da ieri si può arrivare ad un domani migliore. 

Nella foto: Teatro alla Scala, apertura della Stagione 2023/24, opera: Don Carlo di Giuseppe Verdi, Ignazio La Russa, Liliana Segre, Giuseppe Sala, Matteo Salvini, Gennaro Sangiuliano, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Attilio Fontana - Immagini RAI (MILANO - 2023-12-07, FOTOGRAMMA) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate
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