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Israele, Siria e Gaza: i raid come riflesso di una strategia che non si piega al caos regionale

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Israele, Siria e Gaza: i raid come riflesso di una strategia che non si piega al caos regionale
C’è una costante nella politica israeliana: la capacità di imporre la propria agenda nel vortice di un Medio Oriente che vive la sua ennesima stagione di caos. I recenti raid in Siria e nella Striscia di Gaza non sono soltanto operazioni militari, ma capitoli di una strategia più ampia che combina deterrenza, controllo territoriale e la volontà di preservare la supremazia su un’area in perenne ebollizione.

Israele, Siria e Gaza: i raid come riflesso di una strategia che non si piega al caos regionale

Le operazioni aeree condotte dall’aviazione israeliana in Siria si inseriscono in un quadro ormai consolidato: colpire per prevenire. Damasco, teatro di una guerra che ha lasciato solo macerie, è diventata una piattaforma per le ambizioni regionali dell’Iran e delle sue milizie sciite. Israele, con i suoi attacchi a depositi di missili e infrastrutture militari, manda un messaggio chiaro: Teheran non troverà spazio per consolidare la sua presenza lungo il confine settentrionale israeliano.

Questa è però solo la superficie. Dietro le azioni di Netanyahu c’è un gioco a scacchi più raffinato, che tiene conto della presenza russa in Siria e del ruolo ambiguo di Mosca. Israele colpisce, ma con il tacito consenso del Cremlino, che continua a mantenere un piede in Siria per tutelare le proprie basi militari, senza però contrastare apertamente le incursioni israeliane. È un equilibrio precario, fatto di silenzi diplomatici e intese implicite, che però rischia di incrinarsi in un Medio Oriente sempre più polarizzato.

Gaza: una ferita aperta

Se in Siria Israele gioca una partita strategica, nella Striscia di Gaza combatte una battaglia esistenziale. Gli ultimi raid, che hanno colpito anche civili e causato decine di morti, si inscrivono in un ciclo perpetuo di violenza che alimenta rancori e radicalizzazioni. La giustificazione ufficiale è quella di sempre: neutralizzare Hamas e garantire la sicurezza dei cittadini israeliani. Ma ogni bomba che cade su Gaza lascia dietro di sé non solo distruzione, ma anche una narrazione di oppressione che alimenta la retorica anti-israeliana.

Netanyahu, consapevole del peso politico di Gaza, si muove su un doppio binario. Da un lato, rafforza i legami con gli Stati Uniti, con un Trump che non nasconde il suo appoggio incondizionato a Tel Aviv. Dall’altro, utilizza le operazioni militari come strumento per riaffermare la centralità di Israele in una regione in cui ogni cedimento potrebbe essere interpretato come una debolezza fatale.

Un Medio Oriente senza vie d’uscita

La domanda che resta sospesa è sempre la stessa: può Israele continuare a costruire la propria sicurezza sulla forza militare senza cercare soluzioni politiche? I raid in Siria e a Gaza, per quanto chirurgici e strategici, non affrontano il nodo centrale: la fragilità delle istituzioni regionali e l’assenza di un quadro negoziale che possa garantire stabilità.

In Siria, il vuoto lasciato da Bashar al-Assad è stato riempito da potenze esterne, ognuna con i propri interessi, mentre Gaza è intrappolata in una spirale di miseria e isolamento. Israele, con la sua supremazia tecnologica e militare, si trova ancora una volta a navigare in un mare di incertezze, consapevole che ogni mossa può rafforzare le sue difese a breve termine, ma alimentare nuove minacce nel lungo periodo.

Come scriveva un grande cronista mediorientale: in questa regione, nulla è mai come sembra. E Israele, che conosce bene questa lezione, continua a muoversi come un giocatore solitario, cercando di mantenere il controllo su un gioco che nessuno sembra davvero in grado di vincere.
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