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Istat: produttività giù, salari al palo. Rischiamo il cortocircuito

- di: Bruno Coletta
 
Istat: produttività giù, salari al palo. Rischiamo il cortocircuito

Boom di occupati, ma nei settori meno produttivi. Salari reali ancora sotto il 2019. E il Paese invecchia più in fretta della crescita.

(Foto: il Direttore Generale dell'Istat, Michele Camisasca)
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Un’economia che cresce senza slancio
Nel 2024 il Prodotto interno lordo italiano ha segnato un modesto +0,7%, replicando la performance del 2023. Ma è una crescita apparente: appena sufficiente a mantenere il passo, ben lontana da quella della Spagna (+3,2%) e anche sotto la Francia (+1,2%), pur se la Germania continua a frenare (-0,2%). A mettere in crisi il modello italiano è un fenomeno su cui l’Istat è categorico nel Rapporto annuale 2025: la produttività è in calo netto, mentre l’occupazione si sposta verso settori meno innovativi e poco capitalizzati.
“Cresciamo, ma con il freno a mano tirato”, sintetizza l’economista Carlo Cottarelli. “La produttività cala perché l’occupazione aumenta nei comparti a basso valore aggiunto e non si investe abbastanza in capitale umano qualificato.” Parole che riassumono un paradosso ormai strutturale: l’Italia lavora di più, ma produce di meno per ogni ora lavorata.

Occupazione in aumento, ma nei settori sbagliati
Gli occupati nel 2024 sono aumentati di 352mila unità, una crescita che ha coinvolto soprattutto gli over 50. Si tratta in parte dell’effetto demografico — la popolazione attiva sta invecchiando — e in parte di norme previdenziali più restrittive, che allontanano la pensione. Ma a impressionare è la qualità dell’occupazione: la crescita si è concentrata in settori come turismo, ristorazione, servizi alle persone, cioè comparti con bassa intensità di capitale e scarsa produttività media.
Mentre le industrie a più alto contenuto tecnologico registrano difficoltà a trovare lavoratori qualificati, l’espansione dell’occupazione si limita a ruoli scarsamente retribuiti e con bassa formazione. Un modello che alimenta un “circolo vizioso” di salari bassi e investimenti limitati in innovazione.

Il grande gelo dei salari
Un altro campanello d’allarme è rappresentato dalle retribuzioni reali. I salari contrattuali sono cresciuti del 10,1% dal 2019 a fine 2024, ma nello stesso periodo l’inflazione cumulata è stata del 21,6%. Il risultato? Il potere d’acquisto è ancora inferiore del 10,5% rispetto a cinque anni prima. Le retribuzioni lorde “di fatto”, più aderenti alla realtà, registrano una perdita più contenuta ma comunque seria: -4,4%, mentre in Germania si ferma al -1,3% e in Spagna si registra addirittura un guadagno reale del 3,9%.
Questo gap ha conseguenze dirette sulla qualità della vita. Aumenta la quota di lavoratori poveri, si riduce la propensione al consumo, cresce l’insicurezza sociale. “È la conferma di un capitalismo che non redistribuisce più”, denuncia il segretario della Cgil Maurizio Landini: “Si accumulano profitti in cima, ma il lavoro resta sempre il grande sacrificato.”

Una demografia che ci condanna
Sul fronte demografico, l’Italia si avvia a diventare un unicum mondiale. Gli over 80, oggi oltre 4,6 milioni, superano i bambini sotto i 10 anni. Nel 2024 sono nati appena 370mila bambini, nuovo minimo storico. Un dato che segnala non solo un calo della natalità, ma un crollo del progetto familiare nelle nuove generazioni.
“È come se avessimo un futuro dimezzato”, spiega il demografo Alessandro Rosina. “L’invecchiamento non è un problema in sé, lo diventa se non è accompagnato da un ricambio attivo. E oggi quel ricambio non c’è.”
A pagare le conseguenze sono i giovani: le famiglie con un capofamiglia under 35 risultano le più esposte al rischio di povertà ed esclusione sociale, che coinvolge in media il 23,1% della popolazione e tocca un drammatico 39,8% nel Mezzogiorno.

Sanità, la rinuncia come sintomo sociale
Nel 2024, un italiano su dieci (9,9%) ha rinunciato a cure mediche o esami specialistici per motivi economici. Il dato è in netto aumento rispetto al 7,5% del 2023 e dimostra quanto l’erosione del reddito reale stia colpendo anche diritti fondamentali. La percentuale sale ancora di più tra disoccupati e lavoratori precari, e rappresenta un indicatore della crescente fragilità della classe media.
Secondo il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta, “la rinuncia alle cure è il primo gradino verso una sanità privatizzata di fatto, dove il diritto alla salute diventa sempre più una questione di reddito.”

Conti pubblici in miglioramento, ma senza slancio strutturale

Se un segnale positivo c’è, arriva dai conti pubblici. Il deficit è sceso dal 7,2% al 3,4% del PIL grazie soprattutto alla riduzione degli oneri del Superbonus, che aveva gonfiato la spesa pubblica nel biennio precedente. Il saldo primario è tornato in attivo dopo quattro anni e il debito, pur in crescita al 135,3%, resta sotto le previsioni.
Ma anche qui il merito è più di tagli che di crescita. Con il PIL che rallenta, e la spesa per interessi destinata a salire con la graduale fine dei tassi bassi, la tenuta dei conti italiani è tutt’altro che garantita.

La produttività totale dei fattori in caduta libera
Il dato forse più allarmante è quello della produttività totale dei fattori (PTF), che misura l’efficienza combinata di lavoro e capitale. Nel 2024 è scesa dell’1,3%, un segnale chiaro di stagnazione tecnologica e manageriale. Le ragioni sono strutturali: imprese troppo piccole, basso contenuto tecnologico, scarsa diffusione dell’innovazione, formazione insufficiente.
Solo il 40% degli occupati rientra nella categoria “risorse umane in scienza e tecnologia”, contro il 50% in Germania e Spagna, e il 57% in Francia.

Il rischio epilogo: non una crisi ciclica, ma il crollo di un modello
Non siamo più davanti a una crisi congiunturale, da cui si esce con un rimbalzo del PIL o con una manovra espansiva. L’Italia è entrata in una fase strutturalmente stagnante, in cui produttività e crescita si dissociano, e in cui il sistema Paese rischia di diventare irrilevante nello scacchiere internazionale.
I dati Istat sono l’atto d’accusa finale di un decennio mancato: un Paese che si è fermato, invecchiato e impoverito, mentre il mondo correva. Le previsioni per il 2025 parlano di una crescita appena al +0,4%, e l’indice di fiducia delle imprese ad aprile ha toccato i livelli più bassi dal 2021.
Senza una scossa potente — su scuola, ricerca, industria, capitale umano — il rischio è che la decrescita italiana diventi permanente. Una lenta eutanasia economica, accompagnata dal gelo demografico e da un declino che, questa volta, non è congiunturale. È definitivo.


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