La traiettoria è quella di una fuga disperata, il finale quello di una morte che lascia domande aperte. Ma per la Procura il punto fermo è uno: Ramy, 19 anni, egiziano, è morto perché il motorino su cui viaggiava è finito contro un palo del semaforo. E la responsabilità di quell’incidente non è dei carabinieri che li stavano inseguendo, ma di chi guidava lo scooter, Fares, l’amico che con lui ha tentato di sfuggire al controllo.
Ramy, la consulenza della Procura scagiona i carabinieri: "Fu l’impatto con il palo a ucciderlo"
Le conclusioni dell’esperto tecnico incaricato dalla Procura chiudono, almeno dal punto di vista giudiziario, il caso. Ramy non è morto per un tamponamento o per una manovra azzardata dei militari. Non c’è stata alcuna spinta, nessun urto provocato dall’auto dell’Arma. Solo un inseguimento che si è concluso nel peggiore dei modi: con un impatto violento contro un palo, una curva presa troppo stretta, l’equilibrio perso in un attimo.
Nella sua relazione, il perito è chiaro: “Le modalità dell’incidente escludono un contatto tra il veicolo inseguito e quello dei carabinieri. La morte del passeggero è riconducibile esclusivamente all’impatto con l’ostacolo”.
Il rischio scelto
E qui arriva il punto più duro della consulenza: secondo la Procura, se c’è un responsabile, quello è Fares, il ragazzo alla guida del motorino. È lui ad aver deciso di scappare, lui ad aver aumentato la velocità, lui ad aver “accettato il rischio delle conseguenze, per sé e per il trasportato”. In altre parole, è lui che ha messo in pericolo la vita di Ramy.
Un’accusa pesante, che ribalta la narrazione emersa nei primi giorni dopo la tragedia. In molti avevano puntato il dito sui carabinieri, parlando di un inseguimento condotto con troppa aggressività. Ma ora il fascicolo sembra destinato all’archiviazione per i militari. E resta aperto solo per Fares, che ora rischia un’accusa per omicidio stradale.
Una storia sbagliata
Ramy e Fares stavano scappando. Perché? Il motorino non era rubato, né c’era un mandato di arresto su di loro. Ma scappare, in certe zone e in certe vite, è un riflesso automatico. Vedere una pattuglia significa accelerare, perché fermarsi può significare guai. È questo il cortocircuito che ha ucciso Ramy: la paura della divisa, la decisione di spingere sull’acceleratore invece che fermarsi.
Ora la giustizia ha detto la sua. Ma la domanda resta: di chi è davvero la colpa, se crescere con l’istinto di fuggire sembra essere l’unica scelta possibile?