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Brusca è libero: l’uomo della strage di Capaci fuori dalla protezione dello Stato

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Brusca è libero: l’uomo della strage di Capaci fuori dalla protezione dello Stato

Giovanni Brusca non è più sotto protezione. L’uomo che il 23 maggio 1992 premette il telecomando che fece esplodere l’autostrada A29, uccidendo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, è oggi un cittadino libero. La sua scarcerazione era già avvenuta nel 2021, dopo 25 anni di detenzione, come previsto per i collaboratori di giustizia.

Brusca è libero: l’uomo della strage di Capaci fuori dalla protezione dello Stato

Ora è terminato anche il periodo di sorveglianza speciale. Brusca ha dunque concluso il suo percorso giudiziario, ma resta figura centrale nel racconto delle stagioni più buie della storia repubblicana. Nonostante l’assenza di dichiarazioni pubbliche, la sua uscita definitiva dalla protezione dello Stato rilancia interrogativi profondi sul rapporto tra giustizia, memoria e possibilità di riscatto.

Dalla mafia militare al pentitismo

Brusca fu uno degli uomini più fidati di Totò Riina. Partecipò all’eliminazione di figure chiave della magistratura e fu protagonista dell’ala militare di Cosa nostra, quella che optò per la guerra aperta allo Stato. Il suo nome è legato anche all’attentato al giudice Rocco Chinnici, avvenuto nel 1983 con una Fiat 126 imbottita di tritolo. In quell’occasione morirono, oltre a Chinnici, due carabinieri e il portiere dello stabile. La cifra del suo operato fu l’uso sistematico della violenza in chiave strategica, per colpire simboli e incrinare i legami tra istituzioni e cittadini. Dopo l’arresto, avvenuto nel 1996, decise di collaborare con la giustizia, fornendo elementi utili a inchieste decisive. Il suo contributo, ritenuto determinante da più procure, gli valse gli sconti di pena previsti dalla legge per i pentiti. Tuttavia, la memoria collettiva non dimentica i suoi gesti più efferati.

Il delitto del piccolo Giuseppe Di Matteo
Uno dei capitoli più atroci della sua biografia è legato al sequestro e all’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Il figlio tredicenne di un collaboratore di giustizia fu rapito nel 1993 e tenuto prigioniero per oltre due anni. Brusca ordinò la sua uccisione quando comprese che il padre, Santino Di Matteo, non avrebbe ritrattato. Il bambino fu strangolato e poi sciolto nell’acido. Nel racconto che Brusca ha affidato al libro-intervista con Saverio Lodato, Ho ucciso Giovanni Falcone, ammette di non ricordare nemmeno i nomi di tutte le persone che ha ucciso: “Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. Parole che rimandano a un’idea di sistematica brutalità, ma anche a un distacco emotivo che lascia sgomenti. È proprio questo passaggio a rendere oggi difficile, per tanti, concepire il suo ritorno a una vita fuori dal circuito penale.

Le regole della giustizia
La legge italiana, com’è noto, prevede percorsi premiali per chi, avendo fatto parte di organizzazioni mafiose, decide di collaborare e fornisce informazioni cruciali. Brusca, che fu parte integrante del sistema delle stragi, ha descritto nel dettaglio dinamiche interne, nomi, alleanze e strategie di morte. Le sue dichiarazioni hanno avuto un peso decisivo in molte sentenze e nella ricostruzione della struttura operativa di Cosa nostra tra gli anni Ottanta e Novanta. In questo quadro, la fine della sua pena rappresenta l’applicazione coerente dell’ordinamento. Ma le regole, per quanto chiare, non cancellano la sofferenza delle vittime. La madre di Giuseppe Di Matteo, da sempre contraria ai benefici concessi a Brusca, ha più volte dichiarato di non riuscire ad accettare che possa aver avuto una seconda possibilità.

La memoria che resta
Brusca oggi esce definitivamente dal circuito dello Stato. Dopo tre decenni, il suo nome continua a evocare un periodo storico segnato da bombe, funerali, veglie notturne e paura diffusa. Uomini come lui, che hanno fatto parte della macchina della morte mafiosa, restano nella memoria pubblica come snodi tragici. La sua figura divide e continuerà a farlo, perché nel suo caso la verità processuale e la percezione pubblica restano lontane. Il nome di Falcone, come quello di Borsellino, non è legato solo alla morte, ma alla dignità della reazione. Ogni volta che si riapre il racconto delle stragi, la società civile torna a chiedersi se sia giusto, se sia possibile, se sia sopportabile che chi ha partecipato a quella stagione viva oggi come un uomo libero. La risposta non è mai univoca. Ma l’interrogativo resta.

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