"Il calcio del figlio": Wu Ming 4 racconta come crescere a bordo campo ha cambiato lui più che suo figlio
- di: Cristina Volpe Rinonapoli

Federico Guglielmi, noto come Wu Ming 4, ha deciso di raccontare una parte inedita del proprio vissuto con il libro Il calcio del figlio. Storia di genitori, figli e pallone. Non si tratta di fiction né di celebrazione nostalgica: il libro è un memoriale reale, che si snoda lungo dodici anni passati al fianco del figlio sui campi del calcio giovanile. Un diario emotivo, educativo, relazionale, che si apre al lettore come un viaggio umano e sociale all’interno delle squadre dilettantistiche, spesso invisibili, e delle micro-comunità che si formano attorno a esse. Wu Ming 4 non osserva dall’esterno, ma si immerge completamente nella vita da genitore accompagnatore e poi dirigente, raccontando un’Italia che non sempre finisce nei titoli dei giornali: fatta di periferie, allenatori volontari, genitori pieni di aspettative e, soprattutto, ragazzi fragili e pieni di sogni.
"Il calcio del figlio": Wu Ming 4 racconta in un memoir come crescere a bordo campo ha cambiato lui più che suo figlio
Il figlio inizia a giocare non ancora sei anni, in una squadra di quartiere povera, disorganizzata ma vera, umana, profondamente inclusiva. Wu Ming 4 accompagna la crescita del ragazzo, e con lui quella della squadra, dei genitori, degli spazi condivisi. Poi arriva il passaggio a una società più strutturata, più ambiziosa e anche più competitiva. Il libro fotografa con precisione questo cambiamento, segnandone i costi, le tensioni, i momenti in cui lo sport perde la sua innocenza per diventare terreno di scontro tra aspettative, classifiche, ruoli, gerarchie. Eppure, tra le righe, resta la poesia del gioco, quella che l’autore non vuole dimenticare: vedere un bambino che gioca a pallone, scrive, è qualcosa che riconcilia con la vita.
Una narrazione in seconda persona per raccontare tutti
Per rendere universale il racconto, Wu Ming 4 compie una scelta stilistica precisa: il narratore si dà del "tu". Si guarda allo specchio, o parla a un alter ego immaginario che ha vissuto esperienze simili. Questo espediente serve a evitare l’autocelebrazione, ma anche a includere il lettore, a interpellarlo direttamente. L’autore non scrive un elogio del proprio figlio, non costruisce un monumento al genitore impegnato. Piuttosto, si mette a nudo, ammettendo gli errori, le illusioni, le esagerazioni. Racconta i momenti in cui si è lasciato prendere dalla frenesia di quel mondo, gli attimi in cui ha smarrito la misura. Una sorta di "osservazione partecipante", come farebbe un antropologo sul campo: presente, coinvolto, ma anche capace di fermarsi e riflettere sulle dinamiche in atto.
L’incontro con il Paese reale
Tra i momenti più significativi del libro, ci sono gli incontri con persone che altrimenti Wu Ming 4 non avrebbe mai conosciuto. Dall’immigrato albanese che fatica a pagare le trasferte al manager della Banca Mondiale, dal padre militare – con cui l’autore, pacifista convinto, non avrebbe scambiato una parola in altri contesti – fino a dirigenti e allenatori improvvisati. La forza del calcio dilettantistico sta anche in questo: creare legami inediti, forzare le bolle sociali e ideologiche, obbligare a fare i conti con la diversità del Paese reale. Ed è proprio in queste zone liminali, in questi momenti di umanità concreta, che Wu Ming 4 trova il vero significato dell’esperienza. Le piccole comunità che si formano intorno a una squadra di ragazzi non durano per sempre, ma lasciano segni profondi. Si cresce insieme, genitori e figli, e questa crescita diventa il vero risultato della stagione.
Il paradosso del calcio giovanile
Il libro si interroga anche sulle distorsioni del sistema. La genitorialità oggi, scrive Wu Ming 4, è spesso schiacciata dal senso di colpa e da una ricerca ossessiva della felicità dei figli. “Lui vuole giocare a calcio, e allora calcio deve essere”, dice con amara ironia. Ma lo sport, che dovrebbe essere un’occasione di crescita, si trasforma talvolta in un meccanismo ansiogeno, in cui si misura il valore del figlio e del genitore in base ai minuti giocati o ai gol segnati. In questo contesto, pesa l’assenza quasi totale di figure educative realmente formate. Allenatori e dirigenti sono spesso dopolavoristi, persone animate da buona volontà ma prive di strumenti pedagogici. Eppure, proprio in quelle ore di allenamento o di trasferta, emergono fragilità che avrebbero bisogno di ascolto e attenzione.
Una testimonianza che diventa specchio
Wu Ming 4 ha consegnato una copia del libro anche al figlio, che ha letto senza dire molto. Ma un piccolo episodio raccontato nel finale mostra quanto il messaggio sia arrivato: un ex compagno di squadra chiede perché sulla copertina ci sia un bambino con il numero 6, quando quel numero non era il suo. Il figlio risponde: “Ma quello non sono io”. Una frase che coglie in pieno l’intento dell’autore: non raccontare la loro storia, ma una storia che può parlare a tanti, che riguarda genitori e figli ovunque. Un racconto che nasce da un’esperienza personale, ma che si apre a chiunque abbia attraversato lo stesso campo, fatto di terra e fango, gioie e frustrazioni, errori e affetti.
Un libro che invita a guardare da vicino
Nel solco delle opere più intime del collettivo Wu Ming, Il calcio del figlio non rinuncia alla dimensione politica, se per politica intendiamo l’attenzione al reale, alle dinamiche sociali, al modo in cui si costruiscono le identità. È un libro che spinge a osservare ciò che di solito ignoriamo, o banalizziamo: il campo di calcio della periferia, le relazioni informali tra genitori, le emozioni trattenute a bordo campo. E mostra che, in fondo, crescere un figlio vuol dire anche imparare a stare ai margini, a non voler sempre controllare, a osservare con umiltà. E che il vero gol è forse quello segnato dentro, quando ci si accorge di essere cambiati. Nonostante tutto, o forse proprio grazie a quel calcio del figlio.