Megan da Oprah, Zingaretti da Barbara: dov'è l'errore?

- di: Diego Minuti
 
Chi ha in testa una politica in cui la parola ha un senso, soprattutto se ad essa si fanno seguire i fatti, prenda consapevolezza che ormai quel tempo è finito e che il parlare per fare comprendere il messaggio di cui si vuole essere portatori non ha bisogno di elevati scranni.
Basta poco, ormai: una poltrona che può essere indifferentemente collocata al centro di uno studio televisivo, dove l'uso sapiente delle luci cancella ogni imperfezione del viso, ma solo di quello, oppure in un giardino, dove le piante fanno da sfondo ai concetti che vengono espressi.
È la nuova dimensione della comunicazione che, da semplicemente verbale o scritta, da anni ormai è qualcosa di diverso, in cui le parole sono sì importanti, ma appaiono un corollario, perché è il contesto a dare corposità all'assunto che si sostiene.

Ma dobbiamo farcene una ragione, almeno per chi come noi è cresciuto leggendo e non solo ascoltando.
Così vedere che il segretario di un partito importante (reduce dall'avere comunicato una decisione comunque spiazzante come le dimissioni) per spiegare le sue ragioni non aspetti una occasione ufficiale - che dire di una riunione di partito o anche le colonne di un giornale? - , ma scelga di farlo in una trasmissione di puro intrattenimento, dà il segno di come tutti i canoni della comunicazione devono essere rivisti.

Scordiamoci la sacralità delle Camere o quella che può essere determinata da un evento pubblico.
Oggi si va a parlare in un programma televisivo o, come ha fatto Nicola Zingaretti, in una trasmissione che cerca con ferocia l'audience più alta mostrando la parte peggiore del Paese, in cui a reggere l'argomento di giornata sono donne massacrate, uomini fatti a pezzi, andando a cercare nelle pieghe della società quelli che negli Stati Uniti vengono definiti freak, mostri da baraccone colti in un ambiente di degrado, fisico o morale, pur di avere un mostro da mettere a favore di telecamera.

Questa è la trasmissione che Zingaretti ha scelto senza forse nemmeno porsi l'interrogativo se avere Barbara D'Urso come prima interlocutrice dopo le dimissioni potesse offendere la sensibilità di qualche vecchio comunista o, più in generale, di chi crede ancora nella liturgia della politica. E c'è da pensare che, in questa sua scelta, non abbia pesato il fatto di essersi alternato, davanti alla conduttrice, a fenomeni di baraccone, che davanti alle telecamere sono simili a scimmie urlatrici che comunicano tra di loro solo gridando e che in questo modo cercano solo la fama effimera.
Ma a creare un minimo di sconcerto non è il fatto di avere scelto la trasmissione della D'Urso (molti altri politici lo hanno preceduto), quanto che questa decisione si inserisce in una nuova dimensione della comunicazione politica, di parecchi gradini più in basso rispetto a quella - ad esempio - tanto vituperata, che è celebrata nel sinedrio televisivo di cui Bruno Vespa è gran sacerdote.

Se voleva essere uno schiaffo a quelli che hanno storto il naso per quel tweet di sostegno alla trasmissione di Barbara D'Urso (in odore di chiusura anticipata), la presenza di Zingaretti è stata ancora più straniante quando il segretario dimissionario del Pd - che, se non ricordiamo ancora male, dovrebbe essere ancora annoverato tra i partiti di sinistra o riformisti - ha detto che "il populismo si combatte con una politica popolare, non con la puzza sotto il naso", una frase che forse voleva dare ragione a chi disquisisce di radical chic e che, politicamente, è sul versante opposto al Partito democratico.
Ma torniamo al nostro discorso iniziale, sulla scelta di Zingaretti, che avrà avuto pure le sue ragioni, ma che sono state stemperate, in termini di forza, dal luogo in cui sono state formulate.
Interviste (ma sono ancora interviste?) in cui si pongono domande che, formulate solo per mettere l'intervistato nelle migliori condizioni per rispondere, non servono a chiarire. Il che non aiuta chi ascolta.

Questo accadeva nelle stesse ore in cui veniva trasmessa un'altra intervista che, a differenza di quella di Zingaretti, non aveva molta politica da discutere, ma solo vicende familiari, anche se la famiglia in questione era "royal".
Anche Harry e Megan Windsor hanno scelto di farsi intervistare per dire le loro verità, su cui non vogliamo entrare, anche se forse ha pesato la circostanza, affatto secondaria, di un compenso tra i 7 ed i 9 milioni di dollari.
Comunque, hanno scelto di rispondere alla domande di Oprah Winfrey, che forse non è giornalista, ma certo è un'icona della libertà di espressione in un Paese che ne ha fatto una delle fondamenta della sua democrazia e che non ha mai usato episodi che raccontano casi umani border line solo per raccogliere telespettatori e, quindi, pubblicità.

In Italia non abbiamo una Oprah (che nella vita ha fatto di tutto, dal recitare, al condurre trasmissioni, a scrivere, a divulgare), né crediamo che Barbara D'Urso, che è persona molto intelligente, abbia mai pensato di potervisi paragonare. Ma questo non cancella il giudizio sulla scelta di Zingaretti che ha forse voluto dare di sé una immagine più vicina alla gente comune, non nel modo peggiore, bensì dal pulpito peggiore. La televisione di qualità è ormai un ricordo, ma decidere di dire certe cose dallo stesso studio che ospita vicende umane (nell'accezione peggiore della definizione), ad uso e consumo di appetiti truculenti, era forse l'ultima cosa che ci si poteva aspettare. Ma sarebbe ingeneroso mettere in croce Zingaretti per avere partecipato ad una trasmissione che di politici importanti ne ha visti passare tanti. Ma forse occorreva cercare un'occasione diversa per spiegare il perché di una decisione che ha travolto un partito. In che modo lo sapremo presto.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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