Moda: ornamento e decorazione

- di: Stefania Assogna
 

Prima Parte: Quella volta Che Ferragamo e Sonia Delunay…

 

Una certa delusione per la manifestazione Altaroma, che recentemente si è svolta nella Capitale, pone una riflessione sul significato stesso di moda e alta moda. Cosa é rimasto delle atmosfere dei grandi atelier che muovevano la loro arte nel lusso, dei palazzi nobili, nel cuore di città d’arte, come Firenze e Roma, con il sottofondo del fruscio degli abiti da sera? Delle mani esperte dei sarti, che suggerivano modifiche, dispensando consigli, per abiti da sogno? La globalizzazione degli ultimi venti anni ha fagocitato questo mondo e i grandi gruppi industriali internazionali hanno iniziato il loro viavai, comprando, vendendo, quotando in borsa, spesso provenendo da culture più vicine alle banche che non all’ago e filo. La clientela di un tempo è stata sostituita dai nuovi ricchi, prodotto di nuove economie, spesso di paesi emergenti. La moda, condizionata da tutto questo, ha pian piano cessato l’essere esclusivamente creatività, fantasia e il pizzico di follia dei suoi stilisti, smettendo di volare sopra di ogni logica, che non fosse l’infinto potenziale del “fatto a mano”e cedendo piuttosto alle priorità di mercato. La moda ha dovuto così mettere da parte quello spingersi fin oltre il confine della meraviglia, nel virtuosismo di un ricamo, o di un particolare taglio, o qualsiasi altro risultato che fosse unicamente frutto dell’ispirazione del suo creatore, ridimensionando molto l’impulso di un’opera d’arte. Ma cosa è esattamente la moda? Il termine deriva dal latino modus (misura, maniera, forma), come osservava Adam Smith, già nella metà del ‘700, il termine moda era utilizzato per indicare l’indirizzo specifico del gusto, toccando vari settori, dal vestire, agli oggetti, fino alla morale. La moda dunque è un meccanismo sociale generale, che non si limita ai vestiti; Eleonora Fiorani, nella sua Grammatica della Comunicazione, (Lupetti, Milano 2006), descrive la moda come: «il sistema di segni, attraverso cui, si manifesta, nella modernità, il linguaggio del corpo. Nel carattere apparentemente futile della moda, si esprimono in realtà i valori delle diverse epoche, […]. La moda esprime lo spirito del tempo, ed è uno dei segnali più immediati dei cambiamenti sociali, politici, ed economici». Il vestire, è una delle tante manifestazioni della moda e più propriamente un sistema di segni. Dagli albori delle civiltà, emerge la necessità atavica dell’uomo di lasciare il segno, del suo passaggio, comunicando attraverso più espressioni, se stesso. La moda e l’architettura, sono il segno più evidente del passaggio dell’umanità attraverso il tempo, entrambe camminano di pari passo, seguendo, attraverso i secoli, ogni evoluzione sociale e culturale dell’umanità. Entrambe le discipline, che si tratti di un edificio o un abito, sono sostenute da una visione d’insieme della quotidianità, mosse dall’idea di trasformare uno spazio da occupare, in un progetto costruttivo a tutti gli effetti tale da intercettare il cambiamento della società e infine mostrarlo. Come sostiene Serena Danna, in un suo articolo, (Sole 24 ore-24 maggio 2008): «[…]Tra la moda e architettura esiste un nesso naturale, imprescindibile, la moda è architettura quando dà una struttura ai gusti, alle tendenze, dando loro forma e visibilità; l’architettura è moda, perché specchio del tempo che passa, delle mode che investono spazi e persone nella loro quotidianità». La moda è dunque l’insieme dei segni che, manifestandosi, determina il carattere stilistico in cui esprime il proprio tempo. Da qui segue un altro quesito: la moda del vestire può essere arte? Nel 1800 il celebre sarto e creatore di moda britannico, Charles Frederick Worthdiede inizio all’emancipazione del sarto elevandolo, dal ruolo di semplice artigiano soggetto ai desideri dei clienti, a quello di libero creativo, divenendo di diritto il primo re della moda. Worth sceglieva le stoffe, sviluppava idee proprie e produceva i capi, dando inizio alla moda intesa come stilismo. Agli inizi del 20° secolo, la moda affascina molti artisti, tra cui:Klimt, Sonya Delaunay, Robert Dufy, dadaisti, futuristi e costruttivisti, che hanno sperimentato la loro arte cimentandosi anche nella creazione di  abiti e accessori per le maisons; allo stesso modo disegnatori e fotografi hanno immortalato la moda dei couturiers parigini in raffinate pubblicazioni, tra questi ricordiamo il grande Man Ray mentre l’austriaco Josef Hoffmann, esponente della Secessione Viennese, nel periodo in cui il suo WienerWerkstätte (innovativa comunità di produzione viennese, legata al mondo del design, fondata nel 1903) gettava le basi di quelle linee presagio del Decò e addirittura, più tardi del Bauhaus tedesco, si cimentò anche in creazioni di moda e gioielli, non ritenendo questa attività, una espressione minore. Da tutto ciò si evince come la grande rivoluzione dei volumi, del movimento e del colore che le avanguardie artistiche europee avviarono dalla fine del 1800 fino ai primi venti anni del 1900, rivoluzionarono anche il vestire, tanto da cambiare completamente l’estetica e gli stereotipi di bellezza. Seguirono anni di oblio, in cui la moda perse il suo ambito colto, culminando con l’oscurantismo degli anni ’70, quelli dell’arte politicizzata, culturalmente da cancellare e troppo condizionati dal nulla, che furono particolarmente avversi alla moda, finiti fortunatamente i quali, dagli anni ‘80 a oggi, l’arte si è mostrata più “ospitale”, con molti musei che hanno aperto settori importanti dedicati agli abiti. In modo particolare il Museo di Arti Decorative di Parigi e il MoMA di New York, e il Victoria and Albert Museum di Londra. Di conseguenza molti critici d’arte adattandosi a questa nuova situazione, hanno riservato alla moda un posto più elevato che non quello esclusivamente di mero prodotto per il commercio. Gli argomenti nel merito della moda, intesa come forma d’arte, sono infiniti. La verità è che la moda non ha mai avuto una tradizione di critica credibile. L’errore in cui perseverava buona parte della critica contemporanea fino a una ventina di anni fa, era considerare la moda espressione d’arte nel modo classico in cui può esserlo un quadro o una scultura, invece di collocarla in quanto comunicazione di un carattere stilistico, nel modo in cui può esserlo ad esempio una colonna di epoca romana, che, nel caso di specifiche lesene e un capitello corinzio, è riconducibile all’epoca augustea. La critica della moda dovrebbe considerare dunque gli abiti come un qualsiasi elemento, reiterabile, uniforme e coerente nel suo stile ad altri elementi simili, finalizzati allo stesso scopo, che caratterizzano un’epoca. La maggior parte delle opere dei grandi maestri d’ogni tempo ha tramandato, nei caratteri stilistici contenuti nei propri dipinti, gli arredi, le pettinature, le mode, l’intera memoria non solo di un volto, ma del suo intero tempo; basti osservare la Gioconda di Leonardo Da Vinci o il Ritratto di Adele Bloch Blauer di Klimt: due ritratti lontani ma nella narrazione e nei dettagli, simili, perché in entrambi c’è l’essenza tempo in cui quelle persone hanno vissuto. Oggi, la maggior parte delle aziende di moda, promuove l’arte contemporanea nei musei, per legarsi più strettamente al mondo dell’arte, ma questo non risolve il problema dei ruoli: i sarti di ieri sono sempre stati catalogati tra gli artigiani, quelli di oggi considerati industriali e imprenditori, e, di conseguenza, le loro creazioni collocate nella sfera extra artistica ; un nodo che si scioglie associando semplicemente alla moda il suo ruolo, di esprimere il carattere stilistico del proprio tempo, diventando perciò patrimonio dell’arte in quanto espressione, pur mantenendo il suo fine di prodotto per il commercio. La mostra Ispirazioni e Visioni, omaggio a Salvatore Ferragamo, che si è tenuta presso il museo Ferragamo di Firenze, dal 27 maggio 2011 al 12 marzo 2012, è stata molto esaustiva in merito a questo principio. La mostra, inserita nell’ambito di un omaggio al movimento Futurista, descrive l’opera del grande stilista, da cui emergono due momenti determinanti per le ispirazioni e visioni che avrebbero influenzato tutto il suo lavoro. In primis l’arrivo in California nei primi anni del 1900, dove si afferma come “calzolaio delle dive”. Qui trova una fucina di sperimentazioni alimentate dalla Hollywood degli anni ’20, “ruggenti”. L’altro momento fondamentale è il suo rientro a Firenze nel 1927, città che in quegli anni era al centro della vita culturale del paese in cui Ferragamo subisce il fascino delle avanguardie artistiche del ‘900 tra cui il Futurismo, entrando in contatto con Depero,

Giò Ponti e Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles, un artista eclettico futurista, scultore, fotografo, stilista, disegnatore, a cui si deve l’invenzione della tuta, ma anche quelle delle atmosfere parigine legate ai Delaunay e Duchamp. In quella mostra, si sono potute ammirare 156 opere d’arte provenienti da collezioni internazionali ma soprattutto italiane e fiorentine, e inoltre novantanove modelli di calzature, dagli anni ‘20 alla fine del 1950. Tra questi modelli, colpisce il progetto di un paio di calzature, create nel 1929 per Gloria Swanson, da abbinare al cappotto che Sonia Delunay creò per lei. Non si sa se vi sia stata un’interazione diretta tra la Delaunay e Ferragamo, ma certamente c’è stato il punto di contatto tra i due universi che, attraverso il carattere stilistico evidente e condiviso, dei due capi di moda, certificano come la moda abbia una matrice creativa chiaramente riconducibile all’arte, nonostante il suo fine di prodotto da utilizzare.

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