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Lavoro: ma la 'settimana corta' è una vera rivoluzione?

- di: Redazione
 
Lavoro: ma la 'settimana corta' è una vera rivoluzione?
La proposta che arriva dalla Fim Cisl di cominciare a ragionare in Italia sull'adozione di una settimana di lavoro che riscriva gli orari aziendali ripropone un tema che è vecchio, anzi antico. Quello che riguarda modelli di organizzazione del lavoro che sono adottati in Paesi diversi dall'Italia e che si vorrebbero ''importare'' vedendone i risultati, ma non considerandone le condizioni di partenza. Un tema affascinante, che però parte dal presupposto che un modello che arriva dall'estero sia adattabile alle nostre realtà. E diciamo ''nostre realtà'' perché in Italia le situazioni di lavoro sono diverse a seconda dei territori, come dimostrano le cicliche riproposizioni di ipotesi divisive come le gabbie salariali, come se un'ora passata al tornio al Nord sia più pesante di quella di un operario del Sud.
Ma questo non sembra scoraggiare i sostenitori del ricorso alla sperimentazione per cercare migliori condizioni per i lavoratori. A cominciare da Roberto Benaglia, segretario generale dei metalmeccanici della Fim Cisl, che, guardando agli esiti positivi dell'esperimento britannico della settimana di lavoro che occupi solo quattro giorni, ha detto che ''é possibile ripensare gli orari aziendali e ridurli non contro la competitività, ma ricercando nuovi equilibri e migliori risultati''.

Lavoro: ma la 'settimana corta' è una vera rivoluzione?

Per essere più chiaro, Benaglia ha specificato che ''non si tratta di ridurre gli orari in modo generico come nel secolo scorso, ma di rendere il lavoro maggiormente sostenibile e flessibile verso i bisogni delle persone''. Quindi, ''rendere i posti di lavoro più attrattivi''. Un pensiero sul quale c'è da ragionare, evitando di scartarlo subito come utopico, ma considerando quali siano le condizioni attuali che lo rendono poco praticabile. Innanzitutto occorre che questo nuovo modello, che spalma la settimana di lavoro solo su quattro giorni, sia disancorato dalle realtà territoriali, perché concentrare le - usiamo una unità di misura di comodo - 35/38 ore di lavoro in quattro giornate non comporta una diversa organizzazione, ma una rivoluzione che non tutti potrebbero accettare. Qui non si parlerebbe più di una nuova e più attrattiva flessibilità del lavoro, ma di uno stravolgimento del modello attuale, prevedendo più ore al giorno, per meno giorni.

Lo accetterebbero tutti? Forse no. Ma questo nuovo canone dovrebbe essere necessariamente applicato ad alcune categorie e solo a quelle, ponendo le basi per una disparità che, a lungo andare, potrebbe essere anche foriera di problemi al momento non definibili non in termini di qualità della vita, ma semplicemente sociali. Un modello innovativo, quasi rivoluzionario che i sostenitori definiscono come già sperimentato nell'epoca dei lockdown. Forse sì, ma con una sostanziale differenza: quella era una situazione emergenziale e non è detto che si possano riproporre quei modelli che, almeno per alcune categorie, sono stati nocivi, anzi proprio deleteri. Il lavoro a distanza, da remoto, da casa, chiamiamolo come volete, se ha aiutato aziende e società a mettersi alle spalle la pandemia (anche risparmiandoci parecchio), ha impedito il confronto tra colleghi, che è la base della crescita.

Certo non sono modelli sovrapponibili - settimana corta e prosecuzione del lavoro in modalità da remoto - , ma entrambi sembrano non tenere conto di realtà di fatto, sulle quali si cerca di incidere con rivoluzioni ideali che rischiano di ritorcersi contro i lavoratori.
Tags: lavoro
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